Stessa spiaggia, stesso mare. Ma non per tutti

marco ursano Indieblog

Uno dei primi effetti del mondo meraviglioso post coronavirus sarà la privatizzazione delle spiagge. Ovvero, andranno al mare solo coloro che se lo potranno permettere, perché sembra che non ci saranno più spiagge e scogli liberi, vista la difficoltà dei Comuni nel garantire sicurezza e distanziamento.

Già in Liguria il governatore Toti, in perenne campagna elettorale, ha dichiarato che “forse anche le spiagge libere saranno a pagamento”, perché il voto dei balneatori qui in Riviera conta qualcosa (molto più degli affitti di concessione che pagano, questo è sicuro).

Se poi ci mettiamo gli aumenti delle tariffe degli stabilimenti balneari a causa dei costi provocati dall’adeguamento alle normative sanitarie, il piagnisteo è già iniziato, il cerchio si chiude.

Sarebbe giusto, invece, che anche grazie alle tecnologie, magari con app che utilizzano realtà aumentata, e con il contributo delle realtà associative dei territori, i Comuni si impegnassero a garantire l’accesso alle spiagge libere anche per la plebe ed i servi della gleba.
Perché il diritto al mare è un diritto di tutti. È un bene pubblico, collettivo, che non si può alienare.

Al di là del problema contingente, il paradosso è che una crisi sanitaria senza precedenti, che ha tra le cause della sua gravità la privatizzazione della sanità pubblica, dovrà essere risolta, secondo molte menti illuminate, con una ulteriore stretta privatistica. A partire dalle spiagge. Me ne seguiranno altre, si stanno preparando. Privatizzare i guadagni e socializzare le perdite, diceva quello.

Mare mare mare voglio annegare…